Razzismo e schiavitù nell’industria della moda

Giugno è stato un mese intenso, chi l’avrebbe mai detto che appena ricevuto l’ok per uscire di casa ci saremmo trovati in piazza a manifestare assieme al movimento #blacklivesmatter?

Sì, sono bianca, ma non credo che visto il mio “privilegio da bianca” non debba espormi per problemi che non sembrano riguardarmi direttamente, anche perché quando si tratta di cambiare il sistema, che tu stia lottando per i diritti civili, per la libertà di religione, o per il cambiamento climatico, i problemi sono talmente collegati e che possiamo dire – siamo tutti sulla stessa barca e stiamo andando tutti nello stesso posto.

Durante questo mese sono state portate alla luce diverse tematiche, come l’appropriazione culturale, il già citato “white privilege“, si è parlato di N Word e addirittura della transfobia.

Tutti argomenti importanti, ma in tutto questo mi è sorto un dubbio sul livello di consapevolezza che si è creato intorno al problema.

Prendiamo sotto osservazione uno dei più grandi esempi di schiavitù moderna, il fast fashion.

Dei 74 milioni di lavoratori nell’industria del fast fashion, l’80% sono donne di colore, e loro non possono manifestare o alzare la voce. Sono schiave in un industria che soddisfa la domanda di capi a basso costo senza badare alle conseguenze ambientali o umanitarie che una produzione di questo tipo comporta.

L’industria della moda è seconda, per inquinamento, solo a quella petrolifera, e chi ci lavora spesso non guadagna abbastanza nemmeno per sopravvivere, ma deve comunque sottostare a orari impossibili e nessuna protezione in caso di infortuni.

Durante il covid-19 le vendite sono scese in tutto il mondo, e indovinate quale parte della catena produttiva ha patito di più la diminuzione di lavoro? Indovinate chi è stato mandato a casa senza stipendio perdendo il lavoro perchè le case di moda hanno sospeso e cancellato ordini da milioni di dollari già pronti per partire, nel silenzio mediatico più assoluto?

Incredibilmente comprare su Aliexpress una t-shirt con su scritto “Black Lives Matter” non aiuterà in nessun modo il movimento, anzi, da un altro punto di vista, stai usando il tuo privilegio sfruttando qualcun’altro per fare quello che avresti potuto fare tu stesso con una vecchia maglietta e un pennarello.

Non dico questo per sminuire gli sforzi che stanno facendo tutti per costruire una società aperta alle diversità, ma per dire che tanti dei problemi che dovremmo affrontare sono talmente ben insediati nella vita di tutti i giorni da sembrare invisibili.

Invece che litigare sui social sul fatto che le treccine – possano o no essere considerate offensive da una persona afro perché sono considerate “appropriazione culturale” – ricordiamoci che il caporalato, gli abusi di potere, le violenze sessuali e la schiavitù sono ancora pratiche usate per portare a tavola il nostro cibo e nei negozi i vestiti a basso costo che tanto ci piacciono.

E sì, è importante combattere per le piccole battaglie, ma non scordiamoci di quelle grosse! Abbiamo il potere di fare qualcosa perchè, bianchi o no, siamo comunque privilegiati e ci sarà sempre qualcuno che ha bisogno del nostro aiuto, e nel momento in cui ci stiamo battendo per l’uguaglianza dei diritti, non dimentichiamoci di nessuno, soprattutto di quelli che ne hanno meno di noi.

Il razzismo sta nelle parole, nei pensieri e nei fatti, non diamo per scontato i nostri privilegi perché, indipendentemente dal nostro colore della pelle, sono fondati sulla sofferenza di qualcun’altro.

 cos'è il fast fashion

Per approfondire l’argomento:

Racism is at the heart of fast fashion – it’s time for change – The Guardian


Primark and Matalan among retailers allegedly cancelling £2.4bn orders in ‘catastrophic’ move for Bangladesh – The Guardian

Il problema del razzismo nella moda italiana – Rivistastudio.com

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